Pubblico un articolo che il giornalista e scrittore Pietro Berra ha scritto per “Diario della settimana” e che ha aggiornato per Satisfiction. Proprio lo stesso Berra ha combattuto per far riemergere dalla polvere dell’oblio editoriale “Il Canzoniere della morte” di Salvatore Toma. Dopo la raccolta di oltre 15 mila firme la casa editrice Einaudi ha deciso di ripubblicare “Il Canzoniere”. Di Salvatore Toma, delle sue poesie e della sua vicenda umana, ne scrive proprio Berra nell’articolo che ripercorre la storia di questo poeta salentino che visse su una quercia, che morì a soli 36 anni, che nei suoi testi ha lasciato prove notevoli di vitalità e di ironia, che amò molto gli animali e anche la moglie e i figli (un po’ meno l’umanità in genere), che una filologa rigorosa come Maria Corti dovette far passare per suicida per riuscire a farlo pubblicare postumo da Einaudi.
Maledetti leccesi. Non è un insulto, semmai il riconoscimento del valore di quattro poeti che, se fossero nati lungo la Senna o soltanto il naviglio, avrebbero probabilmente costituito un fenomeno letterario. Invece, nel golfo di Otranto, hanno lasciato una scia di sangue, il loro. Sono Salvatore Toma, Stefano Coppola, Antonio Verri e Claudia Ruggeri. Se è vero che la storia non si fa con i se e con i ma, la poesia, che a differenza dello yogurt non scade mai, si fa spesso con i post. E così, anni dopo la loro dipartita da questo mondo, è venuto il momento di riscoprire i quattro moschettieri salentini. L'occasione è il ritorno nelle librerie del Canzoniere della morte del magliese Toma (1951-1987), l'unico del quartetto che, sebbene dall’oltretomba, sia riuscito a pubblicare per una grande casa editrice del lontano Nord. La prima edizione del libro, curata da Maria Corti, la filologa milanese con casa paterna a Maglie, uscì nel '99 da Einaudi. Esaurita, si era portata via le residue possibilità di divulgare l'irriverente verbo del suo autore, che in vita aveva stampato da piccoli editori sei sillogi altrettanto introvabili. Sui generis anche il modo in cui si è arrivati alla ristampa: in seguito a una raccolta di firme lanciata dal sottoscritto e da Giuliana Coppola, ex insegnante, ora libraia e giornalista, anche lei legata a Maglie, cittadina di 15.000 anime nota soprattutto per aver dato i natali ad Aldo Moro. L’idea - «Si raccolgono firme per tutto, dalle buche nella strada all’articolo 18, perché non raccoglierle per la poesia?» - è piaciuta al presidente della Einaudi, Roberto Cerati, e probabilmente sarebbe piaciuta anche a Totò Toma altrimenti detto Totò Franz, come recita il titolo di un libro che un amico, Maurizio Nocera, gli ha dedicato un paio d’anni fa (contiene lettere e liriche inedite, per ordinarlo tel. 0832/34.85.52). Questo stesso volume presenta diverse testimonianze utili a inquadrare il personaggio mitico che il poeta fece di se stesso. A partire dai banchi di scuola: «Frequentò il ginnasio (al "Capece" di Maglie, ndr), ma per due anni di seguito rifiutò di presentarsi all'esame di ammissione al liceo. Solo nel 1971, dopo un periodo di interruzione, si presentò agli esami di idoneità alla terza liceale e nel 1972 il consiglio di classe sentì il bisogno di motivare così la sua ammissione agli esami di Stato: "Vive di sé, del suo mondo poetico; non ha mostrato interesse ai problemi della scuola. Dotato di una fine e delicata vena poetica, di cui ha pubblicato alcuni saggi, che hanno riscosso commoventi riconoscimenti, si è interessato allo svolgimento del programma con personale e poetica interpretazione"». Abbandonati gli studi, Toma si rifiutò di fare il fiorista, come i genitori, sebbene amasse molto le piante, e gli animali, al punto da diventare emulo del barone rampante di Calvino. Aveva eletto a sua seconda casa una quercia, cui negli ultimi mesi di vita aveva pure appeso un'altalena per cullare la sua terza figlia, Tebe, che adesso, a 20 anni, va distribuendo le proprie poesie su foglietti, come faceva il padre. Il "bosco di Toma", all'epoca di proprietà di un nobiluomo che aveva concesso al poeta la facoltà di accedervi in qualsiasi momento, è stato successivamente acquistato da un grosso commerciante della zona. Il quale ha pensato bene di abbattere la quercia per fare spazio alla villetta di suo figlio. La Corti sollecitò gli amministratori locali a non accordare l'autorizzazione: «Come viene tutelata la quercia del Tasso (quella alla cui ombra Torquato si sedeva a riflettere sul Gianicolo, ndr) - era il suo ragionamento - così è giusto che si conservi anche quella di Toma». La soprintendenza ci mise una pezza, purtroppo tardiva: non ha permesso al commerciante di costruire la villetta, peccato che la quercia fosse già stata abbattuta.
Difficile che gli amici parlino del suicidio di Toma. Anche la Corti ne scrisse in termini molto generici. «Perché Toma non si suicidò», svela il mistero Giuliana Coppola. «Morì a causa della cirrosi epatica. Maria Corti forzò un po' la mano per convincere Einaudi a pubblicarlo». I suicidi, si sa, vendono meglio. Ma, in fondo, la cirrosi epatica e il conseguente shock anafilattico sono un dettaglio tecnico, che nulla toglie a quella che la filologa definì «l'aristocrazia intellettuale di una scelta», anticipata da Toma nell'Ultima lettera di un suicida modello: «A questo punto / cercate di non rompermi i coglioni / anche da morto. / È un innato modo di fare / questo mio non accettare / di esistere. / Non state a riesumarmi dunque / con la forza delle vostre incertezze / o piuttosto a giustificarvi / che chi si ammazza è un vigliacco: / a creare progettare ed approvare / la propria morte ci vuole coraggio!».
Da Maglie la petizione ha raggiunto varie città del Nord (Milano, Como, Lecco, Sondrio e Trieste), esportata da alcuni cultori di Toma. Tra i 500 firmatari "poeti laureati" come Franco Loi, Fabio Pusterla, Giampiero Neri e Davide Rondoni. E pensare che Toma li aveva sempre invidiati, al punto da perseguitare via posta i due che dal suo eremo salentino vedeva come i depositari delle chiavi della grande editoria milanese, Giovanni Raboni e Maurizio Cucchi. «Mi mandava delle lettere cattivissime» racconta quest'ultimo. «Una volta spedì una cartolina alla Mondadori, dove lavoravo, sulla quale sosteneva che io e Raboni fossimo legati da un rapporto omosessuale». Anche con Maria Corti si era mostrato subito sprezzante: «Lei non si interesserà mai della mia poesia», le aveva detto la prima volta che si erano incontrati a Maglie. La filologa capì, forse un po' tardi, che in realtà si trattava di una sfida. Allora raccolse nel Canzoniere le perle di una produzione, edita e inedita, che assomiglia a un elettrocardiogramma: fatta di alti e bassi, di cime impervie conquistate con un balzo dell’intuito e di rovinose cadute nel banale, o nell’inutilmente volgare, per mancanza di consapevolezza e labor limae. È stato pubblicato postumo anche Stefano Coppola, coscritto di Toma e cugino della libraia Giuliana, nato a Roma da un primario chirurgo ospedaliero, ma originario di Lucugnano, nel Salento, che rimarrà sempre, come scrisse, «il paesaggio da cui estraggo i miei colori». Nel '92 è uscito un suo volume di Poesie scelte da Piero Manni, editore leccese che ha cominciato l'attività proprio nel mezzo degli anni Ottanta, a dimostrazione di quanto fosse forte allora nel tacco d’Italia il desiderio di gettare un ponte letterario verso la parte alta dello Stivale. Il volume è stato curato da Oreste Macrì, che in 40 pagine di saggio introduttivo ripercorre con acume critico la vita e l'opera di Coppola, particolarmente intrecciate come in tutti i maledetti e caratterizzate da più di una consonanza con il più grande di tutti, Arthur Rimbaud.
Studente di architettura a Firenze, dopo aver invano tentato di iscriversi al corso di cinematografia della facoltà londinese di Scienze politecniche (la domanda arrivò in ritardo), Stefano Coppola visse con partecipazione, per la causa, e distacco, per i modi, la contestazione studentesca del lustro 1970-75. La sua mentalità «anarchico-radicale, consumata in un assoluto individualismo», gli faceva preferire alle manifestazioni di piazza estenuanti letture solitarie di classici e contemporanei, delle quali ha lasciato una lista dattilografata: da Palazzeschi a Pavese, da Apollinaire a Céline, da Shakespeare a Dos Passos, da Tolstoj a Solženicyn, a Borges. Come un novello Rimbaud, nel '76 cercò la vita vera in Africa. «Le parole di questa civiltà occidentale sono talmente consumate che basta usarle ancora un poco perché finalmente se ne vadano a pezzi definitivamente», scrisse da Mogadiscio ad Alessandra Martini, l'ultima delle ragazze con cui ha coltivato intense e sofferte frequentazioni, quella che gli è rimasta accanto fino alla fine e ne ha conservato le carte. Il suo «canzoniere di preparazione alla morte» culmina in cinque versi da brivido, rivolti ancora ad Alessandra: «Mi sono accorto / di possedere il mondo qui / sotto la mammella / sinistra e che / batteva forte». Con le parole non sarebbe potuto andare oltre. Gli restava un gesto: il colpo di fucile al cuore che si sparò l'11 aprile 1982, a 30 anni e 7 mesi, dopo cena.
Antonio Verri è l'unico dei quattro "maledetti" ad aver superato la soglia dei quarant'anni. Sempre in corsa e di corsa, poeta ma anche e soprattutto fenomenale catalizzatore dei geni più o meno sregolati che si aggiravano per il Salento. Praticamente il Verlaine della situazione. Verri che, nel '91, riuscì a far uscire per dodici giorni consecutivi il Quotidiano dei poeti, stampato a Maglie e incredibilmente distribuito attraverso una rete di militanti a Bari, Napoli, Roma, Matera, Perugia, Milano, Trento e Belluno. Verri che, come disse Toma, "mi ha lanciato, lanciandosi con me". Verri profeta dei poeti a venire: «Tebe? Beh, lei "ha il collo e gli occhi di una poetessa". Se la caverà», scrisse in una lettera all'amico appena morto. Verri finì la sua corsa al volante di una Fiat 126, contro il quinto ulivo della Cavallino-Caprarica, la notte di sabato 8 maggio 1993, mentre si stava precipitando a una conferenza. Fu a uno dei tanti incontri promossi da Antonio Verri che Claudia Ruggeri conobbe Franco Fortini. La ragazza, già distintasi in alcune letture pubbliche per la bellezza e per il modo con cui recitava i suoi versi (da «bambina in un bordello», ha scritto qualcuno), affidò al maestro un pugno di poesie strabordanti di parole, un po' barocche e un po' decadenti. Ricevette in risposta una lettera in cui il critico-poeta le definiva «collane e gioielli». Un complimento con rimprovero incorporato: le riconosceva, infatti, di essere una «testa forte», ma le consigliava anche di «rovesciare quanti modelli porta in sé e di fare piazza pulita». Claudia finì per applicare questo suggerimento a sé stessa: si lanciò dal balcone al sesto piano della casa leccese, avvolta in un lenzuolo bianco, l'ultima domenica di ottobre del '96, a mezzanotte. Per sempre ventottenne. «Come se avesse un male / a disperdersi / a volte torna / a tratti ridiscende a mostra / dalla caverna risorge / dal settentrione»: così comincia il suo Inferno minore, pubblicato nel 2000 dalla rivista underground S/pulp, diretta dal giovane poeta salentino Stefano Donno.
Testamento
Quando sarò morto
che non vi venga in mente
di mettere manifesti:
è morto serenamente
o dopo lunga sofferenza
o peggio ancora in grazia di dio.
Io sono morto
per la vostra presenza.
Se si potesse imbottigliare
l’odore dei nidi,
se si potesse imbottigliare
l’aria tenue e rapida
di primavera
se si potesse imbottigliare
l’odore selvaggio delle piume
di una cincia catturata
e la sua contentezza,
una volta liberata.
Ci sono rocce desolate
sulla Badisco alta
giostrellate da un vento
profumato di rosmarino
e di erbe selvagge.
Un lontanissimo giorno
mi stesi a prendere il sole
a precipizio sul mare
illuso di possedere
il cielo e la terra.
Quasi quasi m'assopivo
se non c'era
il garrire alto del rondone
a volte urtante
a volte lento come d'estate
il miracolo dei papaveri.
Mi girai di lato
ammaliato da un maggiolino
a guardarlo con occhi di lente
da vicino. Mi pareva
una terrena stella vivente
amori impenetrabili segreti...
che ne sapevo
che tu eri già nata
dov'eri
e che le tue labbra di vela
i tuoi occhi
la tua smania di vivere
brillavano più dei suoi colori?
Il maiale
era lì che mi guardava.
Il macellaio
faceva finta di niente
e gli girava intorno indeciso
col coltello allucinato.
Voltai l’angolo
il maiale pareva
implorarmi a restare
posando alla catena
come un lupo in olfatto.
Così rimasto incantato
non sentì il coltello
forargli la gola
e non vide il sangue
colargli a dirotto.
Era tutto concentrato
a rivedermi apparire.
Toma,
se vuoi continuare a scrivere
devi smettere di bere.
Cari amici,
io devo fare molto di più
per smettere di bere:
devo smettere di scrivere.
(da Salvatore Toma, “Canzoniere della morte”, Einaudi, 1999)
Ultimi commenti