Satisfiction_recensioni Soddisfatti o rimborsati Il numero 0 di Satisfiction, dopo la Fiera del Libro di Torino, continua a riscuotere interesse. Una media giornaliera di 200, tra mail e telefonate, di lettori interessati a riceverne copia ci convince sempre più che la strada del primo mensile culturale gratuito sia la strada da seguire. Le molte mail, di critici e scrittori, che non solo hanno apprezzato il progetto ma hanno proposto la loro collaborazione, ci fanno ben sperare. Non potendo rispondere a tutti i lettori personalmente di seguito pubblichiamo le recensioni del Satisfiction cartaceo. Recensioni che, come tutte quelle proposte su questo blog, sono "interattive". Se le recensioni ti convincono a comprare il libro, ma dopo averlo letto ritieni che l’entusiasmo di Satisfiction ha deluso le tue aspettative, invia una mail (giaserin@tin.it) che spieghi perché il libro che Satisfiction ti ha segnalato non era veramente “imperdibile e assolutamente da leggere”: Satisfiction ti rimborserà il prezzo di copertina del libro.
Rosella Postorino, La stanza di sopra, Neri Pozza, € 15
Rosella Postorino mi ha "restituito le parole". Me le ha ridate dense, rimpolpate, baluginanti, oscene e irrequiete, di una irrequietezza che resta nel "tempo- non tempo" del romanzo e impressa con potenza in chi legge. Da tempo avevo a che fare con parole rinsecchite, parole di polvere, svaligiate. C’è il linguaggio e c’è lo spazio, in questo romanzo. Il posto di mare dove si svolge la vicenda narrata è importante, ha una rilevanza profonda i in piccoli capitoli o singole frasi che consentono un momento di riposo, una pausa. Postorino ci descrive la luce sui gradini, un bagno in mare, le canne fumate sulla spiaggia. C’è il tempo. Un tempo di attimi e tasselli necessari a chi legge come è necessario nutrirsi di qualcosa, quando c'è carenza, dopo una malattia:" La luce è stata asciugata dalla sera. Un buio screpolato sopra tutte le cose. Nella penombra della cucina mia madre lava i piatti." Nutrire, ecco. Questo libro nutre. Insieme alla storia di Ester che ha 15 anni,riesce, straordinariamente, a raccontare la storia di tutte le violenze, quelle minime, infinitesimali, e quelle enormi, gigantesche, eclatanti, grondanti dolore e sanguinanti a cui è soggetto il corpo(femminile, ma non solo, femminile, in questo caso, e purtroppo più spesso, ma si deve scoprire e comprendere l'universalità di questo libro uscendo dalla facile tentazione di considerarlo un esempio di scrittura delle donne e per le donne) Il corpo è soggetto a violenze. La pelle, la storia, la memoria , tutto è a rischio di venire insolentito, graffiato, grattato via, dimenticato, devastato, disteso, avvolto da odori diversi da quelli che dovrebbe avere( che odori dovrebbe avere un padre?) La solitudine è un’ emorragia del corpo che è predisposto ad altre emorragie, e raccontarle ridonando onore alle parole, trattandole con sacralità, farlo rendendo anche le parole più dure capaci di riscaldare, recalcitranti nello svelare ma anche consapevoli ed esplosive, è quanto di più si possa chiedere ad un romanzo. E' quanto SI DEVE pretendere. (Francesca Mazzucato)
Daniela Rossi, Il merlo indiano, Nino Aragno, € 15
“L’amore è un trascinarsi via. E invece io sto pensando”. E’ questo uno dei tanti passaggi poetici di un libro che apre scenari di femminilità impensata. In queste pagine riscopriamo il sentire femminile: un universo che credevamo perduto in un mondo come il nostro dove sempre più donne diventano uomini e sempre più uomini diventano donne. Un libro che apre cieli d’inchiostro e ci fa riscoprire radici di carta attraverso la storia della protagonista: una giovane donna, cresciuta in una cittadina in cui gli abitanti la provincia l’hanno nell’anima. Una donna che sarebbe facile descrivere come una donna controcorrente: nel caso di questo romanzo non è possibile perché, tra le macerie morali dei luoghi che descrive, in quella provincia, la corrente non c’è. C’è un sentire comune, un’unità di pensiero che diventa utero materno. Un muro di gomma contro è inutile combattere perché non ci rimbalzi contro, ci svanisci dentro. La protagonista, invece, non si arrende alla deriva esistenziale di un mondo che sembra aver perso ogni riferimento, ogni valore, ogni emozione: la sua è una lotta che graffia l’animo prendendoti per mano. L’inchiostro diventa una carezza e la vita diventa una carenza. Un libro che è un tuffo nel cuore di ogni donna: un’educazione sentimentale di una ragazza che vuole diventare adulta in un mondo adulterato. Il merlo indiano conferma tutte le qualità narrative che Daniela Rossi aveva dimostrato al suo esordio con quel piccolo capolavoro di emozioni che è Il paese delle cose senza nome (Fazi editore). (Gian Paolo Serino)
Ornela Vorpsi , La mano che non mordi, Einaudi, € 8,80
Rapida, senza nessi stretti a una trama, è così che si muove la voce narrante femminile dei libri di Ornela Vorpsi. Basta un telaio narrativo per dare la scintilla: l’amico Mirsad, a Sarajevo, non esce più di casa da mesi perché è triste, la signora Toptani, albanese immigrata Parigi, da buona amica parte per andare ad ascoltarlo perché: «L’esigenza di un altro orecchio è propria al lamento». Ma tornare nei Balcani, vicini alla terra da cui anni prima ci si è allontanati, non fa che risvegliare in lei la lingua universale di quei luoghi: «l’esperanto balcanico». È con questa espressione che si apre l’affondo di trenta pagine di episodi e aneddoti che fanno saltare il binario della storia. Sono tessere di un mosaico, scritte in una lingua funambolica: l’autrice è albanese, ma scrive in italiano, e ne derivano object trouvé sintattici e lessicali unici all’ascolto, non frutto di uno sperimentalismo che riguarderebbe ogni tentativo di un nostro madrelingua. Tutto regge perché all’autrice interessa altro: l’indagine di una sensazione, così com’era negli schizzi di “Vetri rosa” (Nottetempo) dedicati alla scoperta infantile e violenta del sesso, e com’è in questo libro, riflessione sulla distanza, la memoria, il viaggio, e l’emigrazione come perdita dell’ovvietà dell’esistenza: «Il male è cominciato quando sono arrivato a Milano. – racconta allora Misrad – Senza capire che la città grigia mi stava scuoiando». E per certe ferite, nate da sogni rotti, sembra impossibile trovare la cura. (Alessandro Beretta)
Dennis Cooper, Troie, Fazi € 15.00 Dio salvi Dennis Cooper da tutte le critiche negative a questo suo ultimo romanzo. Benvenuti nell’era di internet, benvenuti nel mondo delle chat room, dei forum, delle e-mail, del virtuale in ogni sua espressione. Benvenuti tra le pagine del romanzo che promette di ridefinire i confini delle relazioni umane. L’innocenza e la perversione vi condurranno lentamente alla conoscenza di Brad, un adolescente assuefatto dalla noia di vivere. Secondo le recensioni di un sito specializzato in escort e accompagnatori, Brad è un ragazzino bellissimo con un volto angelico disposto a soddisfare, a livello sessuale, qualsiasi richiesta. La prosa di Cooper è scarna, scivola leggera lasciando chi legge a destrarsi tra confusione e attimi di lucidità, tra leggenda e mito, tra soddisfazione e voglia di sapere sempre di più. Fino a quando la notizia che invade la rete è quella che il ragazzo sia stato colpito da una grave malattia e sia disposto a realizzare le fantasie erotiche-omicide di qualche utente. La scrittura risulta rapida e veloce, pronta al consumo, concitata ed estrema, lirica e volgare. Come ci si trovasse a navigare in un blog, a scavare tra commenti e botta risposta. Come se l’autore si fosse munito di una pala per scavare a fondo in argomenti considerati ancora tabù. O come se non fosse altro che una premonizione di quello che sarà il futuro. (Angela Buccella)
Philip Roth, Everyman, Einaudi, € 13,50 Romanzo numero 27 per Roth, che sfodera l'ennesimo capolavoro. Al centro c'è un corpo, fatto di carne e niente più, e poi c'è un luogo, che ritorna pagina dopo pagina: il cimitero. Può sembrare poco invitante, Einaudi - che rinuncia al bianco di copertina per un nero integrale - forse non lo scrive in apertura del comunicato stampa, ma è lì. La bara del protagonista cala nella fossa a pagina 1. Attorno ci sono i superstiti della strage che il tempo ha compiuto alle spalle del tipo che adesso va sottoterra e che nelle pagine seguenti tornerà per noi, affannato, contraddittorio, colpevole, sconfitto. A p. 37: "La religione era una bugia che aveva riconosciuto presto nella vita (...). Niente abracadabra su Dio e sulla morte, né obsolete fantasie sul Paradiso. Esiste soltanto il nostro corpo, venuto al mondo per vivere e per morire." E per scrivere, nonostante tutto, grandi romanzi, aggiungerei io. Non lo so se bastino, ma secondo me sono un indizio. Everyman è imperdibile, nonostante il mio dissenso. Costruzione sapiente, personaggi veri, parole misurate. Anche la famiglia ritorna come sempre: tre matrimoni, il primo che gli ha lasciato due figli risentiti per l'abbandono, il secondo che gli ha portato l'odio di una moglie che non avrebbe mai dovuto ferire ma gli ha lasciato una figlia devota, un terzo che lo ha legato ad una "cosmicamente inefficiente cover girl" di ventiquattro anni più giovane. Poi più avanti: "Ho settantun anni, questo è l'uomo che ho creato." Qui non ci sono scuse. Dal suo residence per pensionati, con "amara tristezza" osserva le ragazze che corrono. E poi dipinge, ma non trova nella pittura la pace che aveva pensato. Intanto il cuore - organo muscolare cavo, situato al centro della cavità toracica - ha messo in atto la sua guerriglia psicologica, buttandolo con le spalle al muro. Sa di aver rinunciato alla donna che ora vorrebbe al suo fianco, ma la carne è debole, ed è soltanto carne. Resta solo il rimorso per "gli stupidi inesorabili, inestirpabili errori che aveva commesso - travolto dalla miseria dei suoi limiti." Questo è tutto. Un romanzo stilisticamente perfetto, inesorabile, potente, anzi: impotente. (Paolo Cioni)
Giuseppe Culicchia, Un'estate al mare, Garzanti € 15,50
Estate 1982: Giuni Russo cantava “Un'estate al mare” e la nazionale di calcio di Bearzot trionfava ai campionati del mondo in Spagna. Ventiquattro anni più tardi, sulle spiagge siciliane, vicino a Marsala, Giuseppe Culicchia ambienta il suo nuovo romanzo che intitola proprio come quella vecchia hit, mentre nell'aria si respirano le prodezze della nazionale che sta vicendo in Germania. Protagonisti della vicenda, una giovane coppia, Luca e Benedetta, in viaggio di nozze. Vogliono un figlio, soprattutto lei, ma concepire sembra più difficile del previsto. Come se non bastasse, in spiaggia, Luca incontra la tedesca Katjia, suo primo amore, che ora ha una figlia diciassettenne, forse troppo disinibita. Mentre l'Italia calcistica è in trepidazione, Luca pensa ad altro: è venuto in Sicilia per visitare i luoghi della sua infanzia e di pallone non ne vuole sapere. Lui è preoccupato per il destino del pianeta e non tollera la superficialità dell'Italietta che in spiaggia, come nei cortei notturni, mostra il peggio di sé. Un romanzo di un'ironia tagliente sui difetti e le ossessioni italiane: dal pallone al telefonino, dal tutto e subito al desiderio di maternità misurato dall’algoritmo di un apparecchio elettronico. Un ritratto impietoso di un Paese abituato a vivere al di sopra delle proprie possibilità, dove ogni cosa sembra venir dimenticata con grandissima facilità; anche i misteri (o meglio, i segreti, visto che qualcuno la verità la conosce) di Stato, in uno dei quali rimarrà invischiato anche il padre del protagonista... (Paolo Roversi)
I tre giorni all’inferno di Enrico Bonetti cronista padano, di Valter Binaghi, Sironi, € 17
Un neonato dato in pasto a un pesce siluro, prostitute squartate, strani riti in riva ai fiumi, traffico d’organi, circoli esoterici e gruppi satanisti di adolescenti brufolosi. L’hinterland a Nord di Milano è funestato da fatti oscuri, dietro ai quali sembra esserci una unica regia. Almeno così la pensa Enrico Bonetti, ultraquarantenne giornalista cronista di nera con alle spalle una figlia e una vita piuttosto disordinata. Parallelamente ai carabinieri e facendosi aiutare da un frate mago della rete, Bonetti scava a fondo nella vicenda scoprendo una realtà dove gli interessi delle multinazionali e della ricerca genetica sembrano ricondurre all’unica quanto eterna minaccia demoniaca. Potente, tragico e disperato, I tre giorni all’inferno di Enrico Bonetti cronista padano è il nuovo romanzo dello scrittore milanese Valter Binaghi, già collaborato di Re Nudo negli anni Settanta e poi autore di due romanzi per Flaccovio. E questo è veramente un lavoro inconsueto nel panorama italiano che seguendo con franchezza una trama noir ben congegnata, rimesta nella spazzatura esistenziale della contemporaneità, affrontando senza retorica tematiche scomode ma irrinunciabili. Nulla è quello che sembra e l’uomo comune è ridotto a una sorta manipolabile fantoccio. Forte di questa consapevolezza, Binaghi ci conduce realmente un percorso all’inferno, nella vana ricerca di una virtuosa distinzione fra bene e male (Alessandro Bertante)
Maurizio De Giovanni, Le lacrime del pagliaccio, Graus, € 12
Tolstoj diceva che le famiglie felici si assomigliano. Capita anche ai libri. Una pagina o una semplice immagine richiamano alla mente pagine o immagini di libri amati. Leggendo l’esordio di Maurizio De Giovanni (riproposto ad autunno per Fandango Libri ) viene in mente il Joyce de “I morti”. Scrittori diversissimi, ma il gancio con Joyce c’è. E’ in quel cadere della neve che avvolge Dublino all’alba di un primo gennaio, e che lentamente va a posarsi su tutti i vivi e su tutti i morti; e rimette a fuoco la realtà emotiva del protagonista. Nel libro di De Giovanni non c’è neve, ma vento. E anche qui cade sui vivi e sui morti. Perché la città è piena di morti. Il commissario Ricciardi li vede. E soprattutto li sente. Ha qualcosa, un potere, il fatto lo chiama lui. E questo fatto lo mette in comunicazione con chi ha subito morte violenta costringendolo a riviverne nella carne l’agonia; E così si fa antenna terminale di un unico grande dolore che accomuna tutti i vivi e tutti i morti. E qui spicca l’ansia cristologica del protagonista, il suo farsi carico di questa croce solitaria in vista di un’espiazione che egli attua in nome dei molti. Di tutti. Ma non c’è filosofia in questo fatto, Ricciardi non interroga forzatamente la propria identità. La accetta. Apparentemente eroe solitario, hard boiled, di chandleriana memoria. Ma in realtà distante da quell’America. Perché siamo a Napoli, negli anni trenta. In pieno regime fascista. Il vento è quindi allusione politica? È ciò che livella e rende le facciate pulite e terse? Mentre i segreti, come sa il commissario, implodono dentro. L’indagine ci porta nel cuore di un organismo pulsante, dedalo di vicoli e arterie in cui il sangue scorre inesorabile. L’autore sbilancia i canoni del genere, si sposta da Marlowe alle solitudini saline di un Izzo. La città allaga la mente del protagonista. Due solitudini estreme che dialogano in silenzio. Entrambi preda di un destino più grande. L'uomo schiavo del fatto, la città della sua impasse storica e di un fascismo che non capisce il suo cuore segreto. Potrebbero fondersi, ma non accade mai. Il tempo va avanti, aggiunge delitto a delitto, regime a regime. (Luigi Pingitore)
Giovanni Di Iacovo, Sushi Bar Sarajevo, Palomar, € 14 Giovanni Di Iacovo (Pescara, 1975) esordisce con un primo romanzo davvero fulminante: una cosmogonia epica, ambientata tra le due sponde dell’Adriatico, tra l’Abruzzo e la Jugoslavia, dove una girandola di personaggi si alterna affacciandosi sul set televisivo del più grande reality mai allestito. Ambientato in un arco di tempo che va dalla Guerra di Bosnia al futuro prossimo venturo, il romanzo non ha propriamente una trama ma diverse strade di senso, in cui il lettore si può perdere, percorrendo velocissime autostrade immaginifiche che aprono veri e propri squarci di illuminazione. Già l’incipit del romanzo sfiora il sublime, nella narrazione della vendetta di una famiglia di Sarajevo che fabbrica proiettili riempiendoli delle ceneri del padre. Successivamente siamo teletrasportati verso strade che si dipanano da un capo all’altro del globo, riallacciando continuamente passato e futuro. Lo spettro di Marconi e della sua nave Elettra si aggira per l’Europa, adorato da una setta segreta nata nella città-ipermercato di Nova Pescara, un immenso agglomerato di merci strutturato come un girone infernale, in cui le persone vivono consumando e vendendo “bios”, buoni che contengono una certa quantità di vita. Forte è l’influsso dei maestri della fantascienza classica, ma questo canovaccio viene ibridato continuamente da una linfa popolare e gergale. Da un lato dunque, l’aspirazione alla descrizione di una globalizzazione e della conseguente apocalisse imminente, dall’altro un’attenzione alla sopravvivenza delle minoranze, anche linguistiche, capace di coniugare una tradizione rurale come quella abruzzese con l’intensità di un mondo alla deriva, descritto in un immobilismo stanziale e al tempo stesso nomadico. Un rizoma di collegamenti e citazioni colte, di rimandi storici e politici, alimenta la lingua di questo testo, che riesce ad attraversare gli oceani del tragico passando con levità al registro comico. Debitore della cultura cyberpunk, Di Iacovo miscela in un cocktail esplosivo tradizioni e avanguardie, dimostrando un talento narrativo straordinario. Un romanzo cosmico, lucido e doloroso come il magma postmoderno che ci ha ingoiato. Le pagine scorrono ipnotiche, alternando un raggiante delirio poetico alla spietatezza del più crudo realismo: Di Iacovo ha regalato un classico alla sua generazione. (Chiara Cretella)
Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani, Longanesi, € 14,60 “Perché non possiamo non essere cristiani (e men che mai cattolici)” si intitola l’ultimo libro di Piergiorgio Odifreddi, omaggiando il Bertrand Russell del “Perché non sono cristiano” e ribaltando il “non possiamo non dirci cristiani” di Benedetto Croce, che con questo pensierino ci ha messo in croce e rotto i coglioni per quasi un secolo. L’autore, matematico e docente di logica, con una scrittura tesa, limpida, divertente, da scrittore filosofo, passa al vaglio Antico e Nuovo Testamento mostrandone incongruenze e demenzialità, e commentando i goffi tentativi della Chiesa, della teologia e della Cei di tenere in piedi il castello di carte sacre. Consigliato, in questi tempi di restaurazione clericale e neoguelfa, in questi tempi in cui si votano leggi in nome della “fede” -da appaiare magari a The God Delusion di Richard Dawkins e a Creazione senza Dio di Telmo Pievani- sia ai credenti, affinché apprendano almeno quanto poco applichino la religione che professano, sia agli uomini di “buon senso” holbachiano, che sanno di essere cugini di scimpanzé e bonobo e di avere per antenati non un Adamo e un’Eva qualche migliaio di anni fa, ma un batterio primordiale di oltre tre miliardi e mezzo di anni, e si comportano nella vita seguendo un’idea di verità, contraria a ogni “verità rivelata”. Questo saggio è un ottimo antidoto anche contro i cattolici light, quelli che dicono “non sono cattolico ma sono cristiano” pensando così di cavarsela a buon mercato. Perché non siano perdonati, perché non sanno quello che fanno né quello che dicono. (Massimiliano Parente)
Giuseppe Altamore, I padroni delle notizie, Bruno Mondadori, € 12.50 euro.
Da inviato speciale a invitato speciale. Il giornalista medio di oggi deve far quadrare i conti della spesa, quindi si vende quello che ha: il potere di informare. Viaggi in Cina per persuadere i giornalisti a parlare bene di un certo libro Mondadori. Viaggi a Santo Domingo per convincerli a scrivere un panegirico su una certa pillola contraccettiva. La pubblicità occulta uccide l’informazione. “Un esercito di ruffiani”: così l’autore definisce gli uffici stampa e gli addetti alle pubbliche relazioni delle aziende inserzioniste. Finalmente lo sappiamo chi è il padrone: chi compra lo spazio per la pubblicità. Adulazioni e ricatti, blandizie e minacce: tutto l’armamentario della violenza comunicativa che ha ridotto i giornalisti di ogni livello a passacarte delle aziende, a confezionatori di balle su misura. “La pubblicità è l’anima del giornalismo,” dice un pezzo grosso di una concessionaria. E poi la confusione dei ruoli; gente che appare in tv, fa in contemporanea il pr, il consulente delle aziende, dei giornali, il massmediologo e, fondamentalmente, il marchettaro. Un’etica gettata alle ortiche. Intrallazzi di ogni genere. Soldi e favori sottobanco. Consigli per gli acquisti travestiti da inchieste. Inchieste che si sfaldano e non arrivano al pubblico perché la verità non è opportuna. Un atto d’accusa verso la cosiddetta libertà di stampa, e verso un popolo di non lettori, di consumatori facilmente abbindolati dai furbastri, dai pataccari, dai lobbysti, dai falsi difensori dei diritti. Il popolo italiano, appunto. Dove prevale il “tengo famiglia”, dove a indignarsi si fa la figura del solito onesto, del solito fesso. (Paolo Bianchi)
Riccardo Bertoncelli-Frano Zanetti, Sgt Pepper. La vera storia, Giunti, € 14,50
Cos’hanno in comune Beniamino Di Giacomo, antico centravanti del Mantova, e Paul McCartney, bassista della più grande rock ’n roll band di tutti i tempi? Nulla, se non una data: 1 giugno 1967. Quel giorno l’attaccante biancorosso, con un gol a quelli che erano i suoi ex compagni di squadra, scucì lo scudetto dalle maglie della Grande Inter, chiudendo un ciclo leggendario. Quel giorno apparve nei negozi di tutto il mondo “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, capolavoro psichedelico dei Beatles dopo il quale la musica e la cultura occidentale non sarebbero state le stesse. Chi si appassiona a queste curiose convergenze storiche troverà pane per i propri denti in “Sgt. Pepper. La vera storia”, saggio filologico e autoironico che i critici Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti danno alle stampe per celebrare il quarantesimo anniversario del concept album beatlesiano. Operazione riuscitissima che concentra in appena 192 pagine aneddoti, curiosità, cose note e meno note sull’Lp più celebre e celebrato di tutti i tempi, ma anche sulla irripetibile epoca in cui venne dato alla luce. Lavoro rigoroso sulle fonti, prosa agile e a tratti scherzosa, veste grafica curata con foto belle quanto poco note. Un libro così mette d’accordo beatlesiani militanti e giovanissimi che solo oggi si avvicinano alla musica. Uno dei tributi più accattivanti che in Italia siano mai stati dedicati a Lennon, McCartney, Harrison e Starr. Pazienza se, in quei giorni dell’Estate dell’Amore, nel Bel Paese a contendere il primato di vendite al “Sgt. Pepper” ci fossero Mina e Adamo. (Francesco Prisco)
Lewis Lapham, I Beatles in India, e/o, € 8,50 1968.
Tra le tante promesse di lieto fine che percorrono l’Occidente una arriva dalle pendici dell’Himalaya: è la meditazione trascendentale, che lo yogi Maharishi sta divulgando tra gli insoddisfatti figli del capitalismo. A Rishikesh, la città del maestro, là dove il Gange comincia a scendere a valle dall’Himalaya, c’è un bell’assembramento: i Fab Four, Mia Farrow e sua sorella Prudence (la cara Prudence…), Marisa Berenson, Donovan e Mike Love dei Beach Boys. C’è anche il giornalista Lewis Lapham che, in questo libro, racconta quello che vide: due culture e due mondi lontani che allo stesso tempo si attraevano e si respingevano. Misticismo o marketing? Verità profonda o contrabbando emotivo? Lapham non risponde. D’altronde, “il seme della saggezza cresce diversamente a seconda dei terreni”. In ogni caso i nostri scesero dalla montagna con le trenta canzoni del White Album. (Enrico Remmert)
Charles Wright, Breve storia dell’ombra, Crocetti, € 16
Nulla di più lontano dal poetico della vera poesia. Il “poetico” sono i matti dolci e commerciali del Cristicchi sanremese, la calligrafica stramberia post-romantica. Nell’occhio temporalesco, nella cataratta prossima allo scroscio della poesia c’è un avvenimento secco, risoluto, tagliente… Per Charles Wright, nato in Tennessee nel 1935, passato in Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la musa è un linguaggio minerale e severo, un cubo di senso e non-senso per cui transitano ombre, la storia rimandata all’infinito del mondo. Le stelle sono fisse e dure, i venti muti e impenetrabili; la fosca resistenza del paesaggio un graffito, un rebus su cui disarticolare la musica dell’abbellimento. Per comprendere di che pasta sia fatta la poesia come conoscenza, la poesia come abitazione transitoria e verticale di un luogo dato, insuperabile nella sua opposizione, occorre farsi dentro questo libro di libri – questa summa portatile del poeta americano meno di moda e più decisivo degli ultimi decenni – dalla sua seconda parte. Sono poesie delle raccolte recenti: sorde e disanimate come avvertimenti, come movimenti minimi ed eterni del tempo di natura. Teso tra un Whitman privo di enfasi e un Pound spogliato della foga del mosaicista, Wright addentella pietre grezze e calce, tenebra e fiori nella sequenza naturale che collima con la soprannaturale evidenza del mistero: “Cammino nel freddo della notte d’autunno pieno come Orfeo, / pensando il mio canto, ansioso di voltarmi /… / Nessun cuore batte alle mie spalle, nessun passo” (Daniele Piccini)
Ruyard Kipling, Kim, Einaudi, € 15,80
Tra gli scrittori viventi salvo soltanto Cormac McCarthy, e questo è tutto. Per questo mi guardo sovente alle spalle, e non in attesa di coltelli. Oggi mi va di risollevare dal tumulo Rudyard Kipling (1865-1936), di cui Einaudi ha da poco edito il classico a cinque stelle Kim in una fiammante traduzione di Massimo Bocchiola. Curioso il fatto che la letteratura “per ragazzi” di qualche decennio fa sia oggi il meglio della letteratura per adulti, caso mai queste categorie valgano qualcosa. Il fatto è che Kipling scrive come un Dio e la sua India è assai più vispa di quella della Bollywood narrativa d’oggidì. Da Salman Rushdie a Vikram Chandra, da Vikram Seth ad Amitav Gosh, nessuno vale la penna di mastro Ruddy. Il quale ai tempi suoi fu preso per l’incarnazione di Dickens o per uno Shakespeare redivivo, salvo poi esser preso a pedate, dopo sepolto, con balzane accuse d’imperialismo (ma si sa, i critici dal cuore puro bacchettano Joseph Conrad perché era razzista e John Milton perché era misogino). Kim è semplicemente un romanzo sublime, che riesce con pochi trucchi a creare la vita, e il mondo: se non credete a me credete almeno a Claudio Magris che firma una partecipe introduzione al volume. Povero Kupling, condannato a un precocissimo, pervadente successo. Se vi è garbato Kim passate in fretta ai racconti della maturità di Mister RK, alcuni dei quali raccolti da Ottavio Fatica, kiplinghiano doc, nel volume «Loro» per Adelphi (2001): vi faranno rizzare la schiena dorsale. Per Jorge Luis Borges quello era il Kipling maggiore, maggiore persino, riguardo al genere, di Franz Kafka e di Henry James. (Davide Brullo)
Francesco Ongaro, L’uomo che cambio i cieli, Cairo, € 17
Francesco Ongaro non è un debuttante assoluto, tre anni fa pubblicò un bellissimo romanzo ambientato a Sarajevo durante la guerra e proprio La stirpe di Caino gli è valsa l’attenzione di attenti osservatori. Ha una scrittura netta, precisa e mai inutile ma capace di slancio poetico dove serve: tratti che si esaltano in L’uomo che cambiò i cieli. Se a Sarajevo Ongaro era andato con una missione umanitaria, questa volta il laureato in Fisica bresciano è partito per cercare gli umori nel vento della storia e ha raggiunto l’isola di Kven dove molta parte di questo romanzo si svolge. È la storia dell’astronomo Tycho Brahe, nobile danese che grazie alle rendite e alla corona danese a fine ‘500 a costruì il primo centro di ricerca della storia: Uraniborg. La sua fu una vicenda entusiasmante e poi molto triste che l’autore racconta senza cercare colpi di scena e misteri idioti, offrendo spunti di riflessione e suggestione. Il lavoro di Brahe fu portato a termine da un’allora giovane Keplero (“esiste solo un’anima motrice al centro di tutte le orbite, cioè il sole”). Fu un secolo breve iniziato con Copernico e concluso da grandi sconvolgimenti cosmologici che provocarno reazioni inconsulte del mondo religioso. Il lavoro di Copernico, Keplero e Galileo nelle geniali osservazioni di Brahe trovò il ponte per andare oltre il guado. La storia è raccontata da Jep, assistente a Uraniborg, in un ricercato svolgersi narrativo dove i cieli parlano di profondità e mistero, della nostra relazione con gli elementi naturali, molto presenti nel libro. L’uomo che cambiò i cieli possiede una forza sotterranea che rimane addosso dopo aver chiuso la storia e aperto gli occhi su molte cose del nostro modo di vedere il mondo. (Davide Sapienza)
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