Ci abbiamo messo dieci anni abbondanti per toglierci dai coglioni i giovani cannibali, che nel frattempo, arrivati agli “anta” - invece di mettere a ferro e fuoco il mondo, come proclamavano dalla quarta di copertina della funesta antologia - siedono beati sui divani delle riviste patinate e cenano in smoking al Ninfeo, rischiando pure di vincere lo Strega. Chissà invece quanto impiegheremo, in questi mala tempora di post-moccismo a digerire la triade Piperno-Saviano-Colombati somministrataci a dose massicce da un simpatico critico letterario che con raro senso della misura ha detto che Giorgio Faletti (uno che al massimo poteva fare il ghost-writer del Francesco Salvi di C'è da spostare una macchina) è il più grande scrittore italiano vivente…
Nel frattempo, aspettando il film tratto da Con le peggiori intenzioni, la fiction-tv ispirata a Gomorra e l'edizione economica di Rio, proviamo a metterci a leggere seriamente. Smettendola di pensare che la narrativa italiana morente inizi sulle pagine di Magazine e finisca nel laboratorio creativo di minimum fax (l'altra triade radical-flop: Nicola Lagioia, Valeria Parrella, Christian Raimo) e smettendola di ripetere con accorata frustrazione che “gli scrittori italiani non sanno raccontare il mondo in cui viviamo”, che “in Italia non esistono narratori come Wallace, DeLillo o Palahniuk”, che da noi escono solo romanzi usa-e-getta, tutta carta sprecata e occasioni perdute.
No. A costo di irritare scrittori, lettori e critici - militanti o smobilitati che siano - noi vogliamo scommettere su un gruppo di autori giovani (editorialmente, non anagraficamente) i quali, uno: sanno non solo raccontare il mondo in cui viviamo, ma provano addirittura a dargli una forma (la lingua) e un contenuto (la sostanza); due: sanno rischiare, mettendosi in gioco, coscienti che la letteratura - vivadio - non è uno strumento di ascesa sociale o una comoda via che porta ai talk-show, ma una straordinaria e pericolosissima possibilità di conoscenza dell'Uomo; tre: che provano a creare personaggi più veri di quelli reali, che sanno “in-ventare” uno stile unico, preciso, anche fastidioso magari ma che ha carattere, e che guardano con passione violenta dentro al cuore umano; quattro: che non vogliono scrivere dei libri, ma fare Letteratura; cinque: che non scrivono per Antonio D'Orrico ma per i posteri.
"E chi sarebbero, mi dica, Sua Eccellenza Sputasentenze, questi giovin scrittori? Chi sarebbero gli eroici salvatori delle Patrie Lettere, questi cavalieri senza Moccia e senza paura? Chi sarebbero questi Illuminati che conoscono il Grande Segreto: che la Letteratura senza etica non è tale. Allora, siamo impazienti. I nomi, i nomi, fuori i nomi Egregio Signor So-tutto-Io".
"Lo farò, Sua Scettica Indisponenza. Lo farò seduta stante, e affrontando la più mostruosa delle prove: parlare di giovin scrittori senza sprofondare nelle paludi delle "Tendenze letterarie", senza aver bisogno di logore "Mappe del fenomeno", sbaragliando le armate delle "Generazioni di narratori", tagliando le teste all'idra della Critica. Lo farò, Sua Spocchiosa Arroganza. Eccoli, i beneamati Magnifici Sette: il Pensiero Forte delle nostre Deboli Lettere.
Prima di tutto, davanti a tutti, Massimiliano Parente, da Grosseto, romano per forza, classe (da vendere) 1970, già polemica firma di questa rivista e di altri fogli consanguinei. Ha scritto un pugno di romanzi, tra i quali Canto della caduta (ES, 2003) e La Macinatrice (Pequod, 2005), e la raccolta di scritti postumi pubblicati in vita Parente di nessuno (Gaffi, 2006). Proprio perché senza parenti (giornalistici, editoriali e letterari), e perché dichiaratamente nemico di chi scrive per neonati, registi e caporedattori, non ha ancora avuto i riconoscimenti che merita. Ma anche i Nobel da un po’ di tempo sono al ribasso. Comunque, così come Philip Roth avrà di che rifarsi su quel filo-armeno politicamente peloso di Pamuk, allo stesso modo Parente avrà di che mettere in fila la triade (nipote di Siciliano e figlia di D’Orrico) Piperno-Saviano-Colombati, e gettarla nel burrone dell'Oblio. Lo farà con il prossimo libro, che gli ha cambiato e rovinato la vita, Contronatura: un romanzo-monstruum di qualche migliaio di pagine che ha già stroncato una mezza dozzina di editor e che uscirà da Bompiani a gennaio 2008. Parente è visionario abbondantemente oltre il limite, ambizioso quanto la scrittura impone, gaddianamente post-barocco. Soprattutto non ha mai creduto alla favola che il romanzo è morto. Morti, semmai, sono quelli che lo dicono. Qualcuno lo ha definito lo Houellebecq italiano. Che, c'è da dire, è un bellissimo complimento, per Houellebecq.
Poi, Michelangelo Zizzi, nato - sbagliando paurosamente secolo e Paese - a Martina Franca negli anni Settanta. Finora le sue (eccelse) prove sono solo poetiche (oltre ad aver pubblicato un thriller con un eteronimo): si segnalano La primavera ermetica (Manni, 2002) e Del sangue occidentale (Lietocolle, 2006). Abulico e pigrissimo, Zizzi da quindici anni lavora a un (meta)romanzo geniale e invendibile in dodici volumi - che ambisce non a raccontare una storia ma la Storia -dallo splendido titolo picaresco La perenne ed improbabile storia di Giovanni Attanasio e del suo vascello di polistirolo, dove si narrano le avventure di un giovane che si ritrova in uno spazio collaterale a questo mondo viaggiando per un tempo non computabile fino ad arrivare ai confini dell’universo, nel regno delle Cernie antropomorfe, dal quale ritorna lasciando un diario frammentario e onirico. Ritrovato dagli archeologi e montato da filologi e critici, il diario viene dopo mille tentativi presentato nella forma definitiva, sebbene si dica che manchino delle pagine… Il romanzo (di cui Zizzi ha già pronti i primi due volumi, sta scrivendo il terzo e ha bene in mente i restanti nove) è continuamente sull'orlo della pubblicazione e continuamente fuori dai circuiti editoriali (è passato da Feltrinelli, Einaudi, Rizzoli e Mondadori). Un breve estratto dell'opera - che ambisce a superare una volta per tutte l'ossessione del post-moderno, qualsiasi cosa questa parola significhi - uscirà sul prossimo numero di Nuovi argomenti (titolo: "Il demone del giudizio"): una narrazione totale, assoluta, fantastica. Zizzi, dal canto suo, sarà protagonista della prima puntata della nuova trasmissione di Pietrangelo Buttafuoco, “Giarabub”, che andrà in onda a breve su La7. Per il resto, come scrive l'autore nel prologo del romanzo, “Leggete e saprete”.
Il terzo “magnifico” è Alessandro de Roma, 37 anni d’età e 1,52 d’altezza. Viene da una terra grama e magnifica, terra di narratori veri come Atzeni e Niffoi, e di intellettuali esemplari come Gramsci. E’ nato a Carbonia, si è laureato in Filosofia a Cagliari, poi ha lasciato l'isola: oggi vive e insegna a Torino. Ha pubblicato un racconto satirico sulla rivista Inchiostro e il bellissimo romanzo Vita e morte di Ludovico Lauter appena uscito da Il Maestrale, la stessa casa editrice (non a caso) di Atzeni prima che lo scoprisse Sellerio e di Niffoi, prima che lo scoprisse D’Orrico e l’Adelphi (ma a De Roma auguriamo miglior destino). E' un romanzo scritto da un futuro grande scrittore che racconta la vita misteriosa del “più grande scrittore di tutti i tempi”, il Ludovico Lauter del titolo. Da parte sua, Alessandro De Roma dimostra un talento fuori dal comune anche nella mail che ci ha mandato quando gli abbiamo chiesto qualcosa di lui: “Prima di essere uno scrittore sono un lettore. Ho scritto questo libro per quelli che amano leggere storie. Mi piacciono le storie, e non mi importa se sono un inganno o un cumulo di fandonie. Anzi, è ancora meglio. Narrazioni incrociate, personaggi capaci di vera cattiveria, deboli schiacciati dalla vita. Fandonie? E possibilmente un finale a sorpresa. E poi un nuovo inizio”. I sardi: poche parole, ma ognuna è una sentenza.
Il quarto è Pippo Russo, di Agrigento, 1965, sociologo all'Università di Firenze, saggista, firma dell'Unità e in passato del Manifesto, giornale per il quale ha inventato la rubrica “Pallonate”, la più detestata (dicono) dai giornalisti sportivi. Polemico, polemista, palleggiatore, dopo un paio di libri sul calcio l'anno scorso si è presentato con il suo primo romanzo: Il mio nome è Nedo Ludi (Baldini Castoldi Dalai), storia - sa và san dir - di un anomalo stopper luddista alla cui squadra viene imposto di cambiare modulo di gioco. Da non giovanissimo esordiente, Pippo Russo si è anche sentito rivolgere sul Foglio un paio di pubbliche preghiere di ringraziamento da Camillo Langone, che di calcio notoriamente non capisce nulla ma sulla letteratura spesso ci azzecca. Confidiamo in entrambi.
Quinto, un vero azzardo: Alcide Pierantozzi, giovanissimo, nato a San Benedetto del Tronto nel 1985, maturità classica e facoltà di Filosofia alla Cattolica di Milano. Scrive di critica letteraria - bontà sua - dall'età di 15 anni. Il primo e finora unico romanzo, Uno in diviso, è uscito nel 2006 da Hacca, mentre il prossimo lo pubblicherà Einaudi. In bilico tra filosofico lirismo e rigurgiti post-pulp, un’opera prima fastidiosa e pericolosamente pretenziosa, vista anche l'età dell'autore, ma che non lascia indifferenti. Cosa abbastanza rara ultimamente. C'è chi lo detesta e chi se ne è follemente innamorato. Noi siamo in quella percentuale (fortemente minoritaria) convinta che non si tratti di un bluff.
Sesto Valter Binaghi, 49 anni, ieri irregolare e contestatario militante dell'autonomia fricchettona (“Sono cresciuto in mezzo a due generazioni, la sessantottina e la settantasettina, quelle del Vogliamo tutto e subito, quelle del principio di piacere contro il principio di realtà, quelle che mangiavano pane e Marcuse a pranzo e pane e Baudrillard a cena...”) oggi compassato insegnante di storia e filosofia nei licei dell'Altomilanese, gli stessi luoghi dove ha ambientato I tre giorni all'inferno di Enrico Bonetti cronista padano (Sironi), ottimo romanzo di genere (meglio: de-genere, nel senso che con i generi ci gioca e li scavalca) uscito con l'imprimatur di Giulio Mozzi, editor di Sironi, e di Tullio Avoledo, scrittore del quale Binaghi è in qualche modo, anche qui, fratello de-genere. In passato, oltre a firmare su Re Nudo e tradurre per primo in Italia le canzoni dei Pink Floyd, ha scritto Robinia Blues (Flaccovio, 2004) e La porta degli Innocenti (Flaccovio, 2005). Binaghi scrive - come si dice - con stile, sa intrecciare e sciogliere una trama e sa qual è la differenza tra letteratura e intrattenimento, senza confondere i piani. Pratica il “genere”, ma la sua è una produzione artigianale. Come le gelaterie: ce sono moltissime in giro, ma solo due e tre sanno fare il gelato buono.
Settimo, buon ultimo, Salvio Formisano: 52 anni, il meno giovane tra i giovani scrittori, di San Giorgio a Cremano. E' stato rappresentante di commercio, tecnico aeronautico, sceneggiatore. Per Meridiano Zero quest’anno ha pubblicato L'accordatore di destini, romanzo unico e splendido. Napoletano senza essere Saviano, minimalista senza essere di minimum fax, realista senza essere Andrea Vitali, ha - tra gli altri - il merito di aver scritto una frase del genere: “Anche se la scrittura richiede applicazione e uno sforzo continuo, non comune, soprattutto è ingannevole, voglio dire, l'approccio alla scrittura. Mille volte uno stato d'animo malinconico o triste viene scambiato per ispirazione, poi si scopre che non si ha niente da dire”.
Naturalmente, si potrebbero fare altri nomi “promettenti”. Ad esempio Nicola Sacco, barese, del '74, che ha pubblicato i bellissimi Racconti a vita bassa (Quarup, 2007) o Antonio Manzini, sceneggiatore e attore, che ha scritto Sangue marcio (Fazi, 2005) e sta per tornare con un libro Einaudi; e nomi di promesse poi non mantenute, scrittori bravissimi al primo libro e caduti poi sul secondo, come Mario Desiati (in Neppure quando è notte ha scritto uno degli incipit più belli degli ultimi anni, poi è entrato anche lui nella grande famiglia di Siciliano…).
Rimarrebbero infine le donne - Fabrizia Pinna detta Bizia, Per tutte le altre destinazioni (Quarup, 2007), ragazza notevole sotto tutti i punti di vista; o Rosella Postorino, La stanza di sopra (Neri Pozza, 2007) o addirittura Rosa Matteucci, se non fosse che la pubblica Adelphi. Ma, da inguaribili maschilisti, siamo convinti che l'ultima donna capace di scrivere sia stata Virginia Woolf. Che non era neppure italiana.
Luigi Mascheroni, (Il Domenicale)
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