Se esiste una lobby degli autori di narrativa, ce n’è anche una, speculare e complementare, di critici italiani? Non mi riferisco ai pubblicitari come il tizio del Corriere Magazine che si inventa il falettismo e il postpipernismo e il colombatismo e dice che Musil e Kafka e Joyce non significano più niente, ma a coloro che dovrebbero esercitare la funzione critica con più serietà. La risposta è sì, e ce la danno i critici stessi. Come i dibattiti in televisione sulla televisione, dove vengono chiamati a discuterne quelli che ci stanno dentro. Come se, per combattere la mafia, si organizzasse un convegno di boss. La novità infatti è che anche i critici si vestono e investono l’un l’altro come unici protagonisti della letteratura. Per farlo, da anni, attuano due strategie parallele: o come Nico Orengo, Giorgio De Rienzo, Andrea Carraro o Roberto Cotroneo hanno scritto romanzi morti, di successo o di insuccesso, oppure affermano che il romanzo è morto. Ultimamente alcuni di loro aggiungono il tassello mancante: i veri scrittori sono i critici. Ne ho avuto un certo sentore durante una chiacchierata con Filippo La Porta, definito, pare, il “critico più sexy”, e sosia sputato di Claudio Baglioni. La Porta aveva già scritto che in Italia i critici sono più intelligenti degli scrittori, e davanti a un caffé in Piazza San Lorenzo in Lucina mi ha rivelato che “Debenedetti che scrive su Proust è come Proust, senza Debenedetti capirei meno Proust”. Volevo dirgli che non è colpa mia se non riesce a capire Proust senza Debenedetti, invece ha prevalso la curiosità di chiedergli chi sarebbero questi critici così illuminati. La Porta non ha avuto dubbi: “per esempio Massimo Onofri, Raffaele Manica, Alfonso Berardinelli”. Minchia, ho pensato, e ho detto “Quanto zucchero, Filippo?” Si noti che sia La Porta che Onofri che Manica fanno parte del Comitato Editoriale di un editore invisibile che si chiama Alberto Gaffi Editore in Roma, che per esempio stampa una raccolta di recensioni di Onofri prontamente recensita dal medesimo La Porta sul Corriere della Sera, dove il critico La Porta definisce il critico Onofri “uno scrittore”, lo paragona a Sciascia, e dice che “leggere queste pagine è come prendere una boccata d’aria nel nostro sistema culturale ingessato”. Che dire? Manica lo incontrai a pranzo l’anno scorso, in compagnia di Alberto Gaffi Editore in Roma, che è pelato e uguale a Mussolini e ha un ufficio davanti a Montecitorio. Io non faccio vita mondana, ma appena esco di casa finisco sempre nel posto sbagliato, che per uno scrittore è sempre quello giusto. Con me si sbottonano anche i più diffidenti perché forse sentono istintivamente che rappresento la loro unica possibilità di restare nella storia, tante volte dovessi scriverne. Per narcisismo preferiscono lo sputtanamento al silenzio. Manica mi chiese se, romanzi contemporanei a parte, dei quali non sembrava fregargliene granché, leggessi la saggistica, come per esempio, oh!, i libri di Garboli. “Trovo i critici molto interessanti, a volte più degli scrittori. Garboli è illuminante. Berardinelli è bravo”. E due. Essendo appena arrivato il caffé buttai lì l’unica risposta possibile “Quanto zucchero, Manica?”. Fuori dalla triade di illuminati dischiusa dalla Porta resta Alfonso Berardinelli, di cui per fortuna è appena uscito un corposo libro intitolato Il critico come intruso, edito da Le Lettere, che a questo punto è possibile consultare per verificare. Il libro di Berardinelli contiene molte analisi lucide e condivisibili sulla condizione culturale italiana, ma soprattutto la quadratura del cerchio e di questo Circolo Pickwick di critici delusi, la cartina tornasole della critica autoreferenziale. E manco a farlo apposta la settimana scorsa finisco a cena proprio con Berardinelli, la figurina mancante, in occasione di un incontro sul ring tra lui e Carla Benedetti, dove ho fatto l’arbitro cornuto perché la Benedetti ha scritto, tra l’altro, un libro bellissimo e coraggioso intitolato Il tradimento dei critici, e se i critici la odiano io la amo. La Benedetti per i critici italiani è colpevole perché ha scritto saggi su Proust, su Gadda, su Pasolini, su Moresco, e contro la critica italiana, anziché sfornare saggi sui saggisti e partecipare al salotto dove La Porta è sempre aperta. Ma cosa dice Berardinelli nel suo nuovo libro? Non dirà anche lui che i veri scrittori sono i critici? Sostiene Berardinelli che “la saggistica è un genere letterario fondamentale”, e si domanda “quale lettore o studioso potrebbe negare che Il principe di Machiavelli, i Saggi di Montaigne, il Dizionario filosofico di Voltaire, le Operette morali di Leopardi, La gaia scienza di Nietzsche o Le pietre di Venezia di Ruskin siano dei capolavori della letteratura occidentale?”. Inutile rispondergli che confonde i geni con i critici, e prendere Leopardi e Nietzsche per due saggisti fa ridere. Non ancora soddisfatto aggiunge che Francesco De Sanctis “è con Manzoni, Leopardi e Verga uno dei massimi scrittori dell’Ottocento”. E pertanto “un giorno mi ero accorto che se dovevo recensire un libro sceglievo quasi sempre, ormai, libri di saggistica: anche quando non mi piacevano, il confronto lo trovavo comunque più interessante”. Capisco che ai critici italiani sfugga l’idea basilare della letteratura, ossia che se un saggio può essere superato da un altro saggio, un’opera d’arte, quando è tale, è insuperabile sempre. Come diceva Carmelo Bene non puoi essere d’accordo con Baudelaire, quando leggi Baudelaire o sei Baudelaire o non sei niente. D’altra parte a Berardinelli basterebbe andarsi a spulciare cosa scrivevano su Shakespeare, su Cervantes, su Stendhal i loro contemporanei, o cosa scrivevano i critici d’arte quando un gruppo di pittori irregolari, che diventarono gli impressionisti, nel 1863 esposero le loro opere al Salon de Refusés inaugurato da Napoleone III. Comunque Berardinelli, a fine cena, poiché non ci siamo detti granché, mi dice che la Marsilio gli ha chiesto di raccogliere i suoi scritti per Il Foglio in un libro, ma ci sono pochi scrittori. “Hai idea di chi potrei mettere?”. Invece che dargli la mia lista lo guardo e gli dico “Ma tu l’hai letto La Macinatrice, di Massimiliano Parente? Uno dei libri più importanti della letteratura occidentale”. Mi piace citarmi in terza persona, è un vezzo comico e una forma di umiltà verso la mia opera. Berardinelli strizza gli occhietti, abozza un sorrisetto, e poiché non è Sgarbi il ciuffo gli sta fulgido e imbalsamato sulla testa, non ha bisogno di ravviarselo, e è così da quando aveva sei anni, ho visto la foto nel suo libro. “È un romanzo complesso, difficile, mi sono fermato a pagina trenta…”. Sto per rispondergli che a pagina trenta il Narratore della Recherche non si era ancora alzato dal letto, ma Berardinelli in fondo mi è simpatico, e per fortuna arriva il caffè a salvarci entrambi e io posso finalmente dire sospirando: “Quando zucchero, Alfonso?”.
(Massimiliano Parente, Libero)
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