Dato che Irvine Welsh è stato citato più volte in molti commenti ho recuperato un'intervista che gli ho fatto nel 2003 per l'allora settimanale IL MUCCHIO SELVAGGIO. Unica intervista rilasciata, in quell'occasione, da Irvine ad un giornale italiano. (GPS)
Sono le due del mattino, siamo nel rifugio piastrellato di un cesso.
Al di là della porta c’è il ritmo ossessivo dell’house music di un noto locale milanese.
Di fronte a me Irvine Welsh, l’autore del romanzo dal quale è stato tratto il film “Trainspotting”, ritratto unico ed ad oggi insuperato della “chemical generation”, la generazione chimica che nell’ecstasy e nelle droghe sintetiche sembrava aver trovato la strada per fuggire ai codici di una società altrettanto allucinata.
Codici che oggi, anche in Welsh, sono diventati sempre più a barre: simbolo di un mondo che agli scontri sembra sempre più preferire gli scontrini…
Autore capace come pochi di stupire sulla carta – grazie ad una scrittura incendiaria che ha terremotato la tradizione della compassata letteratura anglosassone- Welsh è stupefacente… anche come uomo: il viso segnato di chi ha visto molto (e ha fatto di più…) e uno sguardo metallico, sintetico, più alieno che alienato, ma capace di aprirsi in lampi di infantile ingenuità ai limiti della tenerezza.
Con Welsh abbiamo parlato dei suoi due ultimi romanzi: “COLLA” (pubblicato in Italia lo scorso anno dalla casa editrice Guanda) e “PORNO”, l’ attesissimo sequel di “Trainspotting”, che dopo aver scalato le classifiche inglesi con più di 150 mila copie vendute in meno di un mese è arrivato da pochissimo anche nelle nostre librerie.
Partiamo da “Colla”: hai dichiarato che è il più realistico dei tuoi romanzi…
Sì, insieme a “Trainspotting” è sicuramente il più realistico. Anche se in fondo oggi non si possono più fare troppe distinzioni tra realismo, surrealismo o iperrealismo perché la gente trascorre sempre più tempo nella propria testa.
E non mi riferisco all’isolamento sociale da alcool o droga, ma a quello indotto dalla “società dello spettacolo”, dall’uso sempre più invadente delle immagini da parte dei media, della tivù, della pubblicità. Questi messaggi ossessivi, queste immagini martellanti ci costringono sempre più a cercare rifugio in noi stessi, ad isolarci in uno spazio mentale sempre più privato.
Estranei ed estraniati…
E’ una sorta di autodifesa: da un mondo ossessivo che ci costringe ad evadere in noi stessi e al contempo da noi stessi.
Proprio per questo penso che non abbia più senso sottolineare i confini tra reale e finzione: semplicemente questi confini non esistono più.
Piuttosto inquietante…
E’ il dramma dei nostri tempi: viviamo nell’era della comunicazione e non siamo più capaci di comunicare. E’ esattamente quello che ti dicevo prima: il rifugiarsi sempre più dentro noi stessi.
Siamo soli…
Se da una parte l’amicizia è l’ultima “colla sociale” ancora possibile, dall’altra parte siamo tanti soli, insieme.
Un po’ amaro da accettare…
E’ più amaro viverlo. In questo senso io sono un sopravvissuto. Se sono qui, se sono sopravvissuto a me stesso, in un certo senso lo devo alla scrittura. Mi ha permesso di uscire da un mondo, quello del sottoproletariato, che oggi non ha più nemmeno i connotati della disperazione metropolitana, in fondo romantica, ma quelli di un dramma consumistico dove vivere equivale ad accontentarsi, a porgersi come obiettivo un riscatto che da sociale è diventato economico.
La triste prospettiva che aspettava il protagonista di Trainspotting: la scelta di “non vivere” tra rate e mutui…
Già…se quella è vita. Il problema è che un mutuo non è qualcosa di economico, ma è un’impostazione mentale.
L’inizio di una vita prefabbricata: nascita, scuola, lavoro, mutuo, pensione, morte…
E’ una nuova forma di schiavitù rateizzata: è un binario a senso unico, senza via di ritorno. Non ci sono alternative. L’unica è ribellarsi, ma anche questo sta diventando impossibile.
Cioè?
E’ impossibile ribellarsi ad una società che ti schiavizza attraverso i consumi. Tutti noi, volenti o nolenti, siamo costretti a consumare: ogni ribellione a questo, è uno sforzo inutile.
Tu, però, sei riuscito a ribellarti…
In un certo senso sì, ma come ti dicevo prima è stato grazie alla scrittura.
A proposito come è iniziata la tua dipendenza… dall’inchiostro?
Rispondo con una frase che utilizzo spesso perché sintetizza al meglio il mio pensiero e il mio percorso esistenziale: dopo l’adolescenza hai a disposizione vent’anni per ammazzarti. Se la scampi, allora bisogna che tu faccia qualcosa. Io… ho iniziato a scrivere.
E scrivendo, in un certo senso, fai della politica…
In tutti i miei libri, forse in tutti i libri, c’è necessariamente qualcosa di politico. Anche in “Trainspotting”. Quello che ho descritto non era forse la conseguenza di una politica?
In “Colla” è più evidente perché la storia si svolge lungo un trentennio, dagli anni ’70 ad oggi, cruciale per la vita sociale e politica del Regno Unito. Mentre scrivevo “Colla” mi rendevo conto che, malgrado tutto, non è poi cambiato molto. Sono cambiate le forme del nuovo dispotismo, ma la disgregazione della working class è un processo rimasto inarrestabile. A mutare è solo l’aumento delle vittime inconsapevoli…
In che senso?
Oggi siamo tutti delle vittime. Siamo vittime delle logiche consumistiche, del mercato globalizzato. Non c’è via di scampo perché il meccanismo di stritolamento dei nostri io si è perfezionato.
Viviamo in un lager di divertimenti…
In un certo senso sì. E liberarci è impossibile. Siamo tutti coinvolti perché siamo tutti consumatori.
Consumatori e consumati: in realtà non acquistiamo, siamo acquistati…
Sì, oggi ad esempio le elezioni non servono a niente, sono una presa in giro. Oggi votiamo quando andiamo al supermercato. Si vota ogni volta che si consuma. Però la maggior parte della gente è convinta di vivere ancora in una democrazia.
Invece?
Invece viviamo in una post-democrazia dove tutto è permesso…
Se ci pensi un attimo è allucinante: non c’è nessun Grande Fratello, ma un nemico con il sorriso sulle labbra che ti sconfigge senza nemmeno che tu ti accorga di aver combattuto.
E’ una guerra invisibile: alla conquista dei territori si è sostituita quella delle coscienze…
Il peggio è che viviamo in una società anestetizzata. Basta pensare alla politica degli Stati Uniti. L’essere costretto a scegliere “o con l’America o con i terroristi” la vivo come una violenza.
Eppure la gente non si ribella: nessuno osserva che l’America è un impero che mira soltanto all’espansione del proprio potere economico. Il controllo delle risorse petrolifere è l’unico anello mancante della catena: a questo mirano gli Stati Uniti. Ed ancora una volta è solo economia…
Beh, la tattica è nota: dai tempi degli Indiani cattivi…
E’ la logica terroristica delle multinazionali, del profitto sopra ogni cosa, della conquista del mercato globale. Aberrante…
Globalizzazione che, come scrivi in “Porno”, ha finito per inglobare anche i movimenti giovanili…
Senz’altro. Sino all’inizio degli anni ’90 c’erano ancora culture giovanili che mantenevano intatta una propria identità.
Oggi non c’è più differenza tra Londra, Edimburgo o New York: la cultura giovanile si è omologata. Ad ogni latitudine.
Tu però hai fatto in tempo a vivere culture veramente autonome: penso alla tua esperienza musicale in gruppi punk. Come ha influito sulla tua scrittura?
E’ stata una delle avventure più importanti per me, di quelle che gli scrittori hanno bisogno per la propria crescita.
Col tempo mi accorgo che è stato molto importante anche per come costruisco i personaggi dei miei libri.
Mi sono reso conto, ad esempio, che nel descrivere un personaggio penso automaticamente al tipo di musica che ascolta. A partire dai suoi gusti musicali ne ricavo la personalità. Proprio per questo ascolto spesso musica che non mi piace: mi aiuta ad entrare nella testa delle persone.
A proposito di personaggi: hanno un ruolo fondamentale nei tuoi romanzi…
Sì, nei miei libri non c’è trama, solo personaggi. E’ il loro profilo che mi interessa descrivere. Attraverso di loro riesco a raccontare delle storie. Il resto, è noia: da scrivere e da leggere.
A proposito di storie: molto spesso accomunano i tuoi libri a quelli di William Burroughs…
Il paragone da una parte mi lusinga, dall’altra mi irrita perché non penso di avere molto in comune con Burroughs: i suoi protagonisti appartengono alla borghesia e vivono la propria tossicodipendenza come ribellione all’ambiente dal quale provengono. La droga diventa quindi un simbolo, una ricerca intellettuale.
Nelle mie storie, invece, la droga è una conseguenza: l’effetto collaterale di una società sull’orlo del collasso.
Io racconto il vuoto: che sia quello degradato e degradante dei sobborghi di Edimburgo o quello apparentemente più colorato dei rave londinesi.
La tua scrittura, invece, ha cambiato la nuova letteratura anglosassone…
Non lo so, dicono…ma non ci penso troppo. Quando inizio a scrivere tutto è a livello inconscio, quasi automatico.
Ma hai spezzato il ritmo classico della scrittura…
Non esiste un ritmo classico: il ritmo c’è o non c’è. E’ soltanto una questione di velocità: oggi tutto corre, sempre più veloce. Perché la mia scrittura dovrebbe essere diversa?
Mi sembra di capire che non ami molto l’estabilshment culturale…
Non ho mai frequentato salotti letterari da scribacchini. La mia formazione non è accademica. Non provengo, come la maggior parte degli scrittori inglesi, da Oxford o da Cambridge: non so cosa scrivano, non mi interessa, non ci tengo a saperlo. So solo che sono distanti dal quotidiano, dal reale, dalla vita di tutti i giorni. Non puoi scrivere se vivi in un bozzolo.
La tradizione letteraria scozzese, però, affonda da sempre le proprie radici in una critica sociale piuttosto dura…
Più che sociale, socialista. I personaggi della tradizione non sono il popolo, sono semplicemente populisti. Oggi non ha più senso raccontare il mondo delle fabbriche: ha senso solo raccontare la sua ombra, raccontare i danni apportati dalla scomparsa di quella cultura e il vuoto che inghiotte qualsiasi cosa.
Ma con Blair la musica non è cambiata?
E’ quello che pensa la gente, ma è solo perché la nuova politica ha capito che le tensioni sociali non vanno combattute o represse, ma rese invisibili. E’ una logica più sottile, ma altrettanto letale…
In “Porno”, si parla esattamente di questo…
Anche di questo. E’ una logica conseguenza: il mio nuovo libro riprende i protagonisti di Trainspotting. E se in Trainspotting molti avevano visto un’esplicita accusa al thatcherismo, sarà inevitabile, dato i tempi, pensare a Blair.
Adesso però inizia il secondo tempo…
In che senso?
E’ un modo di dire che uso quando faccio “clubbing”, quando giro per i locali. C’è un primo tempo dove vado in discoteca per bere qualcosa, per salutare gli amici ed essere gentile.
Il secondo tempo, invece, è all’insegna del “to get fucked up”, del massacrarsi d’alcool…
Anche perché il primo tempo diventa troppo spesso un lavoro.
Saluto Welsh ringraziandolo della disponibilità, esco dall’inferno delle piastrelle al neon e mi tuffo nella “house”.
Mentre mi accingo a raggiungerlo nel “secondo tempo” scorrono i titoli di coda…
Firmati Welsh, naturalmente:
“Scegliete la vita; scegliete un lavoro scegliete una carriera, scegliete un maxi televisore del cazzo, scegliete lavatrice macchine lettori cd e apriscatole elettrici; scegliete la buona salute il colesterolo basso e la polizza vita, scegliete un mutuo ad interessi fissi scegliete una prima casa, scegliete gli amici; scegliete una moda casual e le valige in tinta, scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo, scegliete il fai da te e chiedetevi chi cazzo siete la domenica mattina; scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo d' imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete un futuro scegliete la vita, ma perché dovrei fare una cosa cosi? Io ho scelto di non scegliere la vita…”
GIAN PAOLO SERINO
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