Pubblico di seguito parte dell’inedito COSA E’ LA VITA PER ME proposto in anteprima sulle pagine di Satisfiction (www.satisfiction.it , in ulteriore aggiornamento le librerie dove trovare la vostra copia gratuita) e ora nel volume Rivoluzione (Mattioli 1885). Ad invitarci alla lettura di questo intenso inedito è lo scrittore Davide Sapienza, curatore del volume.
LA BIANCA LOGICA di London
Non aveva ancora trent’anni il London che scrisse questo appassionato, tremendo, apocalittico e scioccante saggio. Scelse di chiudere così la raccolta di saggi Rivoluzione del 1910: un incontro tra ideali, visione razionale e sociale, desiderio per sé e per tutti di emancipazione. E dolore, molto dolore. London rimane unico perché lanciava sfide a carte scoperte, le annunciava: credeva nella correttezza. Povero lui.
Aveva detto, “trasformerò il giornalismo in letteratura”, e così aveva fatto conquistando il mondo con Il richiamo della foresta. Erano poi arrivati gli scritti politici, nei quali egli stesso aveva bisogno di credere in qualcosa, e l’ultima cosa – come confesserà nel 1913 nel terribile capolavoro John Barleycorn – sarebbe stato “il popolo”. Perché la Bianca Logica lo metteva continuamente alle corde, costringendolo a scrivere ciò che, nella sua immensa lucidità mai intrisa di cattiveria, sapeva descrivere senza risparmiare nulla. Neppure (a) se stesso.
Davide Sapienza
COSA E’ LA VITA PER ME (1905)
traduzione e adattamento di Davide Sapienza
Sono nato proletario. Ho scoperto presto l’entusiasmo, l’ambizione e gli ideali e per poter ottenere queste cose esse sono diventate il problema di tutta la mia infanzia. Vengo da un ambiente rude, volgare, duro. Non avevo un orizzonte davanti a me: direi piuttosto un confine. Il mio posto in questa società era sul fondo, dove la vita offriva squallore e sventura alla carne e allo spirito.
Sopra di me troneggiava il colossale edificio della società e nella mia testa l’unica direzione era in salita. Dall’interno di questo edificio presi la decisione di arrampicarmi verso l’alto, dove gli uomini indossavano vestiti neri e camice inamidate e le donne erano vestite con abiti meravigliosi. Lassù c’erano cose da mangiare buone e in abbondanza. Questo per la carne. Poi c’era lo spirito. Sapevo che sopra di me stavano l’altruismo, il pensiero nobile e pulito, la sagace vita dell’intelletto. Lo sapevo perché avevo letto tanti romanzi alla biblioteca sul lungomare e in quei libri, ad eccezione dei cattivi e delle avventuriere, uomini e donne esprimevano pensieri bellissimi, parlavano un linguaggio meraviglioso e le loro gesta erano gloriose. In breve, ogni giorno accettavo l’alba e con essa l’idea che sopra di me c’era ogni bella cosa nobile e armoniosa, tutto ciò che rendeva dignitosa e decente una vita che valesse la pena di essere vissuta come giusta ricompensa per i travagli e le miserie.
Ma non é così semplice rampar fuori e lasciare il proletariato, specialmente se si é menomati da ideali e illusioni. Vivevo in un ranch della California per cui venni subito sbattuto davanti alla scala che avrei dovuto salire: era dura. Dentro di me la vita reclamava più di una magra esistenza tra stenti e rinunce. A dieci anni feci lo strillone per le strade di una grande città. Tutto quello che mi riguardava era sempre fatto di squallore e sventura: sopra di me c’era lo stesso paradiso in attesa di essere conquistato ma la scala da risalire era di un altro genere. Era la scala degli affari. Perché risparmiare e investire in bond dello stato visto che mi bastava comprare due giornali a cinque centesimi per rivenderli a dieci centesimi con un semplice movimento del polso, raddoppiando il capitale? La scala degli affari era la mia scala. Fu allora che la visione di me stesso nei panni di un principe del commercio.
Il titolo di “principe” me lo ero già guadagnato a sedici anni, mi era stato appioppato da una banda di tagliagole e ladri che mi chiamavano “Il principe dei pirati di ostriche.” Avevo salito il primo piolo della scala degli affari, ero un capitalista. Possedevo una barca e un perfetto completo da pirata di ostriche e sfruttavo i miei simili: avevo un equipaggio composto da un marinaio. In qualità di capitano e di proprietario prendevo due terzi del bottino e ne lasciavo un terzo all’equipaggio, anche se l’equipaggio lavorava duro come il sottoscritto e come il sottoscritto rischiava vita e libertà.
Quest’unico piolo fu l’altezza massima che riuscii a salire nella scala degli affari. Una notte partii per un raid tra i pescatori cinesi. Non sbagliamoci, era una rapina: precisamente lo stesso spirito del capitalismo. Il capitalista prende le proprietà dei suoi simili magari servendosi di un rimborso, tradendo un fondo fiduciario, comprando senatori e giudici della corte suprema. La differenza è che io ero volgare: usavo il fucile.
Quella notte l’equipaggio dimostrò l’inefficienza contro la quale il capitalista ha l’abitudine di lanciare i suoi strali: simili inefficienze fanno lievitare le spese, riducendo i dividendi e il mio equipaggio ottenne entrambe le cose. Non ci furono dividendi quella notte e i pescatori cinesi furono più ricchi grazie alle reti e alle corde che non eravamo riusciti a rubare. Mi ritrovai in bancarotta, lasciai all’ancora la barca e partii per un raid lungo il fiume Sacramento. Ma mentre ero via, un’altra gang di pirati della baia fece una scorribanda e portò via qualsiasi cosa dalla mia barca. In seguito recuperai lo scafo alla deriva e lo rivendetti a venti dollari. Ero scivolato dall’unico piolo che avevo salito. Non ritentai più la scala degli affari.
Da lì in poi venni spietatamente sfruttato da altri capitalisti. Io avevo i muscoli e da questi muscoli loro spremevano denaro mentre io ricavavo un sostentamento insignificante. Fui marinaio, scaricatore di porto e manovale. Lavorai nei conservifici e nelle fabbriche, nelle lavanderie, a tagliar prati, pulire tappeti e lavare finestre: mai una volta che potessi godermi il frutto della mia fatica. Guardavo la figlia del proprietario del conservificio sulla carrozza e sapevo che quella carrozza era anche opera dei miei muscoli, che avevano contribuito a trascinarla in giro. Ma non provavo risentimento: faceva parte del gioco, i forti erano loro. Ma bene: siccome io ero forte, decisi che mi sarei trovato a forza un posto accanto a loro. Il lavoro non mi spaventava, amavo il lavoro duro.
Un colpo fortunato mi fece trovare un datore di lavoro che la pensava allo stesso modo: io ero disposto a lavorare e lui era più che disposto a farmi lavorare. Credevo che avrei imparato un mestiere e invece scoprii che stavo sostituendo due uomini. Io credevo che lui avrebbe fatto di me un elettricista e invece lui, sfruttandomi, faceva cinquanta dollari al mese. Gli uomini che avevo sostituito prendevano quaranta dollari al mese e io facevo il lavoro di loro due per trenta dollari al mese.
Troppo lavoro mi fece venire la nausea. Decisi che non volevo più lavorare per tutta la vita e fuggii. Feci il vagabondo, elemosinando per gli Stati Uniti tra bassifondi e prigioni. Ero nato proletario e a diciotto anni ero in un punto ben più basso di quando ero partito. Ero nelle profondità sotterranee della miseria della quale non é bello parlare. Ero nella buca, nell’abisso, nel pozzo nero, nel mattatoio, nell’ossario della civiltà: la parte dell’edificio che la società sceglie di ignorare.
Dirò solamente che le cose viste laggiù mi hanno terribilmente spaventato: al punto da riflettere e riconoscere le crude verità della complicata civiltà nella quale vivevo. La vita era una questione di cibo e riparo, e per ottenere ciò gli uomini vendono le cose. Il mercante vende scarpe, il rappresentante del popolo, tranne rare eccezioni, vende fiducia: quasi tutti vendono onore. Era tutta merce, ogni persona comprata veniva rivenduta.
Ma c’era una differenza. Scarpe, fiducia e onore si rigenerano. Il muscolo no. Mentre il commerciante di scarpe vende le scarpe, intanto rifornisce il magazzino. Ma non c’é alcun modo di rinnovare il magazzino di muscoli: più il lavoratore vende muscoli meno ne restano a lui. I muscoli erano l’unica merce che possiede ma ogni giorno diminuisce e alla fine, se prima non muore, svende: una bancarotta muscolare e quindi non resta che tornare nelle cantine e perire miseramente. Appresi così che anche il cervello é merce, diversa dal muscolo: a cinquanta o sessant’anni, un venditore di cervello é ancora agli inizi e i suoi articoli vengono pagati bene. A cinquant’anni un lavoratore è esaurito. Se non potevo vivere dove c’era il salotto della società, avrei provato almeno nel sottotetto. Certo la dieta era magra ma l’aria era pura: presi una decisione. Non avrei più venduto i muscoli. Avrei venduto il mio cervello.
(Jack London)
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